Tratto da: "Figura e numero", di Giuseppe Cambiano

 

La geometria antecedente ad Euclide, almeno fino al quinto secolo, non si presentava come un sapere unificato nei contenuti e nelle tecniche di risoluzione o di prova.

Su quest’ultimo piano è grande l’influenza esercitata da discussioni svolte in ambiti non specificamente geometrici. Basti pensare all’importanza dell’eleatismo. A Zenone di Elea si deve un ampio uso della dimostrazione per assurdo, che prova la verità di una proposizione non direttamente, ma attraverso la confutazione, ovvero la dimostrazione della falsità o contraddittorietà della proposizione contraria. Questo tipo di prova svolgerà una funzione essenziale nella geometria greca, perché su di essa sarà fondato, tra l’altro, lo strumento più raffinato di questa geometria, il metodo di esaustione, impiegato da Eudosso e poi da Archimede, che mira a dimostrare che due figure hanno area uguale anche quando non è possibile scomporle in un numero finito di parti a due a due uguali.

 

Il numero greco e l’aritmologia pitagorica

La figura, inizialmente, non era analizzata separatamente dal numero. Le relazioni tra i due piani erano al cuore del pitagorismo. Archita avrebbe ancora parlato del numero e della grandezza come di "fratelli". Per comprendere questo aspetto del pitagorismo si può parlare di una corrispondenza generale tra numero ed entità costitutive del mondo, e quindi anche figure. Il numero pitagorico, del resto, presupponeva la sua raffigurabilità con punti individuati nella pratica mediante sassolini. Con questi numeri figurati potevano essere costruite serie, ad esempio quella dei numeri quadrati 4, 9, ecc. Infatti dalla rappresentazione del 4, applicando la squadra, si poteva ottenere la rappresentazione del 9, e così via. Questa relazione tra unità e punto, estesa a quella tra due e linea, tre e superficie, quattro e solido, nel caso di un pitagorico come Eurito, ossia ancora verso la fine del quinto secolo, avrebbe coinvolto anche altri tipi di entità. Egli riteneva possibile indicare il numero del cavallo o dell’uomo, forse mediante costruzioni con sassolini fissati nei punti chiave della struttura dell’oggetto, indipendentemente dalle dimensioni dell’oggetto stesso. In questa stessa chiave deve forse essere letta anche la testimonianza aristotelica su una tavola pitagorica di opposizioni, dove accanto a coppie quali uno/molti o dispari/pari, ne troviamo altre quali destro/sinistro, maschio/femmina, buono/cattivo, luce/tenebra. Analogamente Filolao accennava a corrispondenze tra determinati numeri e l'intelletto o l'eros o la memoria o tra tipi di angoli e particolari divinità.

Insomma, ogni numero, fornito di un'individualità che lo distingueva dagli altri numeri, poteva essere simbolo di enti particolari. Si comprende allora l'esaltazione del numero da parte di Filolao per la sua funzione conoscitiva e il suo potere nell'ambito delle cose divine, demoniche e umane.

All'interno dei numeri una posizione privilegiata era assunta dai primi 10, soprattutto dall'uno e dalla decade. Ma come sempre, solo un sapere privilegiato consentiva di accedere al regno dei simboli. La leggenda del segreto pitagorico e le testimonianze sul carattere settario della comunità esprimono questa concezione del sapere. Il numero diventava oggetto di apprendimento iniziatico e poteva al tempo stesso caricarsi di valenze politiche. Per Archita il numero era lo strumento risolutore dei conflitti, in quanto capace di stabilire una medietà. E il riconoscimento dell'importanza della proporzione geometrica nella distribuzione di beni e onori sarà una costante del pensiero non democratico, da Platone ad Aristotele. Anche nel discorso di Palamede, stilato da Gorgia, l'utilità della scoperta del numero era sottolineata dal fatto che esso è "custode delle ricchezze".

All'interno del pitagorismo è storicamente possibile effettuare una distinzione tra aritmetica come teoria dei numeri e logistica come tecnica del calcolo.

Nell'aritmetica greca i numeri sono concepiti come elementi di una successione, ma il primo della serie è l’uno, non lo zero. L'assenza dello zero conferiva all'uno una posizione privilegiata, rendendolo oggetto di ricerche filosofiche che si protrarranno sino al neoplatonismo. L'uno costituì sempre un limite invalicabile, un'entità indivisibile, dietro la quale non esistevano antecedenti. Anche ciò poteva ricevere valenze politiche: "Uno è per me diecimila, purchè sia aristos", affermava Eraclito. E quando i pitagorici, iniziando una lunga tradizione, proclamavano l'uno archè, alludevano non soltanto all'inizio della serie, ma a una gerarchia dell'ambito dei poteri. D'altronde l'uno non costitutiva un numero vero e proprio: diversamente dai numeri, infatti, veniva denominato parimpari, cioè pari e dispari insieme. Così, non si può realmente parlare dell'esistenza nell'aritmetica greca di numeri frazionari, perché le frazioni non erano numeri, ma logoi, rapporti tra numeri. Ciò era coerente con la nozione di uno come entità indivisibile e invalicabile, priva di antecedenti, perché l'affermazione che i logoi sono numeri avrebbe comportato l'ammissione dell'esistenza di numeri minori di uno. Del resto il vasto impiego dei rapporti avveniva all'interno di schemi proporzionali, dove l'affermazione che a è un terzo di b veniva enunciata nella forma a:b = 1:3.

A queste ristrettezze in campo numerico corrispondevano limitazioni sul terreno del calcolo. Nell'ambito dei numeri naturali potevano propriamente essere eseguite soltanto l'addizione e la moltiplicazione, mentre per la sottrazione occorreva che il numero da cui sottrarre fosse maggiore del numero sottratto. Questo limite sarà poi aggirato mediante l'introduzione dello zero e dei numeri negativi, entità che rimasero estranee all'aritmetica antica.

Certo è comunque che le ricerche pitagoriche, concentrandosi sulla natura e sulle proprietà dei numeri, ebbero la tendenza a svincolarsi dai problemi posti dal calcolo, legato alla pratica "malfamata" dei commercianti. Non era attraverso i calcoli che si poteva accedere ai numeri. Nei testi platonici la netta distinzione tra aritmetica e logistica si troverà pienamente sancita. Non che il calcolo non fosse più praticato o apprezzato - alta è la considerazione di esso in Archita, anche se è difficile determinare quali compiti propriamente gli assegnasse - ma la svalutazione della logistica come applicazione dei numeri al dominio degli oggetti sensibili diventerà un fatto ricorrente. L'aritmetica non aveva a che fare col contare, sempre compromesso col terreno del sensibile.

Del resto lo stesso tipo di notazione non era fatto per facilitare le tecniche di calcolo. Non esisteva un sistema di notazione unificato, e quelli in uso erano complicati. Nell'Arenario Archimede dovrà ricercare un sistema per esprimere numeri molto elevati, che i mezzi di notazione esistenti non consentivano di esprimere.

 

L’irrazionale e l’assiomatizzazione

La scoperta dell’irrazionale avvenne forse già nel quinto secolo attraverso la considerazione del rapporto tra la diagonale e il lato o del pentagono o del quadrato. Aristotele conosce una dimostrazione per assurdo dell’incommensurabilità del lato con la diagonale del quadrato, fondata sul fatto che l’ipotesi della loro commensurabilità condurrebbe all’uguaglianza di un numero pari con un numero dispari. La forza della prova è legata all’indiscutibilità della distinzione tra pari e dispari. Il terreno dei numeri non era propriamente scalfito. Era messa in dubbio soltanto la possibilità di esprimere numericamente ogni tipo di rapporto tra grandezze; ma già si sapeva che il logos non è propriamente un numero. Incommensurabili, infatti, risultavano non certi numeri, ma certe grandezze. Con esagerazione dunque si è parlato di crisi dei fondamenti della matematica greca dovuta alla scoperta dell’irrazionale. Ad essere messa in crisi era piuttosto la teoria pitagorica del numero. L’aritmetica invece continuò a procedere come prima e continuarono le ricerche aritmologiche. Ciò che venne meno fu la possibilità di un confronto diretto tra numeri e grandezze.

Dalla considerazione geometrica dell’irrazionale venne emergendo il volto euclideo della geometria. Ciò avvenne nel corso del quarto secolo a.C. nell’Academia platonica. Nonostante quanto si è voluto sostenere, Platone non diede grandi contributi tecnici alla matematica. Egli conosceva però bene le sue procedure argomentative, se ne servì sempre liberamente e ne fece un ingrediente essenziale della propria scuola.

Nel Menone, che è stato considerato il manifesto della fondazione della scuola, per risolvere il problema dell’insegnabilità della virtù egli utilizzava una procedura di soluzione dei problemi detta dai geometri "per ipotesi" e consistente nel risolvere un problema basandosi su un’ipotesi, nonostante quest’ultima costituisca a sua volta un problema risolubile. L’ipotesi era dunque non un principio da cui dedurre conseguenze, ma la condizione di risolubilità di un problema.

Nella Repubblica si ha invece una diversa situazione: il metodo dei matematici appare qui un altro e Platone non è più disposto a seguirli, perché le ipotesi sono diventate principi a sé stanti, di cui non occorre rendere conto e da cui si deduce una serie di proposizioni. Per Platone una geometria così organizzata non è una scienza vera e propria, ma una semplice convenzione. Per quel che ne sappiamo, questa nuova concezione della geometria dovette rappresentare una svolta.

L’ateniese Teeteto, vicino all’Academia, aveva tentato di generalizzare la teoria degli irrazionali (estendendola alle grandezze incommensurabili), dandone una definizione in positivo.

Teeteto divideva la classe dei numeri in due sottoclassi, rappresentando la prima come quadrati risultanti dal prodotto di due lati uguali e la seconda come rettangoli risultanti dal prodotto di due lati disuguali. La caratteristica di questa teoria era la commistione di aritmetica e geometria, ma già si vedeva la necessità di una rappresentazione geometrica, perché i mezzi offerti dalla teoria tradizionale dei numeri, ossia le classificazioni in pari e dispari, primi, composti e così via, apparivano insufficienti.

Sulla stessa linea di generalizzazione dell’irrazionale si muoveva anche Eudosso di Cnido, ma attraverso una netta distinzione del concetto di grandezza da quello di numero. Se non l’inventore della sistemazione assiomatica della geometria, Eudosso fu certamente colui che la impose. Basti pensare alla grande attenzione che gli riserva Archimede. La tradizione assegna ad Eudosso la paternità del quinto libro degli Elementi di Euclide, dove appare una teoria generalizzata delle proporzioni. Le proprietà delle proporzioni erano certamente già note: ciò che deve essere attribuito a Eudosso è la trattazione di tali proprietà in riferimento ad ogni tipo di grandezze, commensurabili e incommensurabili. Tale generalizzazione poteva essere compiuta soltanto attraverso un’assiomatizzazione della teoria, ossia mediante le definizioni generali di rapporto e proporzione. Nelle proposizioni 5 e 7 del decimo libro di Euclide si ribadisce che le grandezze commensurabili hanno tra loro lo stesso rapporto che un numero ha con un numero, mentre quelle incommensurabili non hanno questo tipo di rapporto. Il rapporto tra i numeri è dunque meno esteso del rapporto tra le grandezze. La geometria poteva così aspirare a inglobare anche l’analisi dei rapporti tra numeri. Ciò spiega la presenza di libri "aritmetici" in un’opera prevalentemente geometrica come gli Elementi di Euclide.

La teoria di Eudosso aveva potuto inglobare "l’irrazionale" senza che ciò comportasse una modifica del concetto tradizionale di numero. Su tale presupposto era fondato anche il metodo di esaustione proprio di Eudosso. Il presupposto è relativo alla possibilità di rendere una grandezza, mediante sottrazioni successive, minore di una grandezza data piccola a piacere. Ciò implicava che, come aveva affermato Anassagora, non esiste un minimo assoluto. Quando Archimede dirà che Eudosso aveva dato la dimostrazione che i volumi del cono e della piramide equivalgono a un terzo dei volumi del cilindro e del prisma aventi la stessa base e la stessa altezza, è chiaro che intenderà parlare di dimostrazione in senso forte, euclideo, dato che la scoperta di quelle proprietà risaliva già a Democrito. Effettivamente il metodo di esaustione era una tecnica dimostrativa di risultati già acquisiti per altra via.

Nelle mani di Eudosso la geometria era diventata un sapere ordinato e autosufficiente. Era questo che Platone non poteva accettare. Egli, distinguendo il mondo sensibile da quello delle idee, aveva creato uno strumento forte, capace di ordinare in un sistema compatto, ma gerarchizzato, le varie forme del sapere, sistema che corrispondeva al suo progetto di una città organicamente unita, ma gerarchizzata. In questa prospettiva una matematica del tutto autonoma era un assurdo. Platone imputava dunque ai matematici di lasciare immobili gli assiomi, di non rimetterli in discussione, di sganciarsi dalla dialettica. Egli assegnava invece alle matematiche una funzione propedeutica, cioè preparatoria allo studio della dialettica.

Platone non accettava la polemica di Protagora, che non aveva riconosciuto il contenuto non empirico di concetti geometrici come quello di tangente in un punto, o di Aristippo, che giungeva a disprezzare le matematiche perché non si pronunciavano sul bene e sul male. Né d’altra parte poteva condividere la posizione di Isocrate, che accettava le matematiche come ginnastica mentale e propedeutica alla filosofia, ma intendeva per filosofia una semplice guida alla condotta pratica. Per Platone l’uso strumentale delle figure da parte della geometria allo scopo di giungere a conclusioni valide universalmente, non soltanto per la singola figura tracciata, faceva della geometria stessa un ponte essenziale per l’accesso alle idee.