L’ETA’ DEL DECOLLO

capitolo II

Il Novecento si aprì, per l’Italia, con un evidente sviluppo in campo economico. Il peso dell’industria nella produzione nazionale diventò sempre più forte e, di conseguenza diminuì quello dell’agricoltura. Così nel 1915 il 25 per cento dei beni prodotti era di provenienza industriale, il 43 per cento di provenienza agricola, quando solo tre anni prima ben il 49,9 per cento erano prodotti agricoli e appena il 19,6 per cento prodotti industriali. Le conseguenze dell’industrializzazione furono una rapida crescita del reddito nazionale, un altrettanto rapido processo di urbanizzazione e, di conseguenza l’aumento del numero degli uomini impiegati nell’industria.

Lo sviluppo fu incoraggiato dal fatto che i capitali investiti nel campo industriale furono sempre maggiori e aumentava sempre di più la possibilità di avere attrezzature più numerose ed efficienti. Lo storico Castronovo individua due cause fondamentali che stanno alla base del risveglio economico dell’Italia: le "novità emerse sul mercato internazionale", e il "riordinamento delle banche e della finanza pubblica". Un fattore esterno e uno interno, dunque.

FATTORE ESTERNO: Lo sviluppo italiano è legato in parte alla nuova spinta industriale che negli ultimi anni dell’Ottocento aveva invaso l’Europa, il Giappone e gli Stati Uniti: abbandonata la prima fase della rivoluzione industriale che utilizzava il ferro come materiale e il vapore come forza motrice, il Novecento scopre l’elettricità.

Grazie ad essa anche le industrie penalizzate dalla scarsa disponibilità di carbon fossile poterono avviare la produzione, i meccanismi diventarono più potenti e le nuove leghe prodotte dai forni elettrici permisero di trovare dei materiali alternativi al ferro. Conobbe una notevole espansione anche l’industria chimica che permise la lavorazione di un tipo di combustibile liquido utilizzato per i motori a scoppio. Questo significò una rivoluzione nei mezzi di trasporto, la fine delle ottocentesche corse alle miniere d’oro e la nascita della corsa ai pozzi di petrolio. A livello internazionale i prodotti inglesi perdevano sempre più peso nel mercato, mentre quelli statunitensi e tedeschi, sempre più ricchi di cartelli e trust, acquistavano sempre più importanza; notevole era la produzione tedesca dell’industria dell’acciaio. In linea di massima tutti i paesi sarebbero stati in grado di competere con la vecchia potenza inglese, anche la Francia che ebbe nel tempo uno sviluppo industriale più graduale rispetto a quello degli altri paesi. L’Italia aprì il secolo con una produzione per niente competitiva con quella degli altri paesi: il settore tessile possedeva la quota maggiore dell’industria italiana, mentre la forza italiana era molto scarsa nei settori più moderni come quello della lavorazione dei metalli. Nel primo decennio del secolo, però, seppure rimase fondamentale il peso dell’industria tessile, l’Italia sviluppò anche gli altri settori: siderurgico, metalmeccanico e soprattutto chimico.

FATTORE INTERNO: si provvide a un risanamento delle banche di emissione, così nel 1894 la Banca Nazionale e le due banche toscane ancora esistenti furono riunite in un’unica banca: la Banca d’Italia, che possedeva nuove norme di regolamentazione della circolazione monetaria e il compito di emettere cartamoneta. Nello stesso anno nacquero la Banca Commerciale Italiana, a Milano, e il Credito Italiano, a Genova, banche di credito sorte grazie all’apporto di capitali tedeschi, austriaci e svizzeri. Insieme all’unificazione delle banche d’emissione e al risanamento del sistema creditizio, nacquero le banche miste di deposito e investimento, organizzate sul modello tedesco e che avevano dato in Germania un impulso straordinario di industrializzazione. Dalla Germania, quindi, non arrivarono solo i capitali, ma anche modelli di organizzazione finanziaria e tutte le competenze tecniche che avevano permesso, in particolare, lo sviluppo del settore siderurgico e elettrico.

Questi fattori portarono ad uno sviluppo del capitale aziendale e permisero la nascita di veri e propri centri industriali e finanziari, non diversamente da quanto stava avvenendo nei principali paesi europei.

Il settore che risentì maggiormente di queste innovazioni e che contribuì al successivo sviluppo del sistema industriale è quello dell’elettricità.

Le prime società elettriche nacquero in Italia come tentativo di sperimentazione delle applicazioni di questa forma d’energia , che furono operate con successo per la prima volta nel 1879 dallo statunitense Thomas Edison. Ma ancora nel 1883 la società milanese Edison, chiamata così in onore dello scienziato americano, era a stento capace di illuminare solo i quartieri centrali. Tra i principali problemi c’era quello dell’insufficienza dei mezzi finanziari forniti dalle banche e quello del trasporto dell’energia. Le nuove risorse finanziarie, investite nel campo elettrico e il perfezionamento dei sistemi di trasporto a distanza dell’energia, permisero verso la fine del secolo il decollo dell’industria elettrica. Anche se ancora dopo l’inizio del secolo il carbon fossile era la forza energetica più importante dell’industria italiana, il settore elettrico iniziò ad espandersi, far circolare capitali e competenze tecniche. In molti luoghi dove c’era una sufficiente disponibilità di acqua sorsero centrali idroelettriche. L’Edison si assicurò a supremazia industriale nella Lombardia e nelle regioni del Nord, la Società Meridionale di Elettricità nel Sud, e la Sade (Società Adriatica di Elettricità) nel Veneto e in quasi tutta l’Emilia. L’elettricità venne incontro a molte esigenze dell’industria italiana, prima fra tutte quella di sostituire alla forza vapore una fonte di energia meno costosa. Tra i settori che vennero avvantaggiati dall’energia elettrica ci furono soprattutto quello tessile, meccanico e chimico.

Nel paese, con lo sviluppo della popolazione urbana, si ridusse la quota dell’autoconsumo, e divenne sempre più forte la richiesta di beni e di servizi. Lo sviluppo delle industrie tessili e alimentari, il consumo di beni di seconda necessità (biciclette, macchine da cucire, ecc...), la crescente domanda di utensili in metallo o di altri articoli per la casa dimostrano che, nonostante i salari degli operai italiani non fossero alti quanto quelli dei loro colleghi europei, le classi popolari videro migliorare le proprie condizioni di vita.

La crescita dell’industria e dell’economia nazionale ebbe risvolti anche nel commercio estero: le esportazioni aumentarono e il mercato interno non dovette più temere la schiacciante concorrenza estera.

Il decollo industriale fu permesso da una nuova classe imprenditoriale dinamica desiderosa di far fruttare il capitale. Era facile trovare le origini di una grande dinastia industriale nella mentalità imprenditoriale che un artigiano o un semplice capo-operaio aveva sfruttato per fare fortuna. La volontà di un’ascesa economica spingeva questi uomini ad un’applicazione incessante e parsimoniosa al lavoro e loro stessi, a volte, arrivavano a lavorare nelle fabbriche in aiuto agli operai. La differenza con i vecchi proprietari fondiari si delineava sempre di più. Sebbene l’agricoltura fosse tutelata dal protezionismo, la classe aristocratica aveva perso un’importanza effettiva sul piano della produzione, politico e del pensiero. Nel Nord questa differenza era notevolmente attenuata: spesso anche gli aristocratici partecipavano alle attività d’impresa investendo parte delle loro rendite fondiarie nelle manifatture. Lo stesso Giovanni Agnelli, fondatore della Fiat, era figlio di un facoltoso possidente.

Questo nuovo gruppo di imprenditori aveva capito che la fabbrica poteva essere il luogo di sviluppo dell’intera economia e della società. Una buona organizzazione dell’industria l’avrebbe fatta fruttare e avrebbe accresciuto il capitale. Molti industriali, allora, scelsero di studiare in Germania, per poter portare in Italia i riusciti canoni di razionalità tecnica e organizzativa tedeschi. Altri come Camillo Olivetti, il creatore della prima fabbrica italiana per la produzione dei macchine da scrivere, presero dagli Stati Uniti una mentalità anticonservatrice. La nuova classe imprenditoriale era pronta al rischio ed esigeva la competizione nel mercato come fattore di sviluppo e incentivo per il miglioramento della produzione.

I successi e i punti deboli dell’industrializzazione

Durante la "primavera riformista" del 1901-1906 si svilupparono in Italia nuclei imprenditoriali estremamente attivi ed innovatori, grazie ai quali si verificò un vero e proprio decollo industriale. Industria elettrica, imprese meccaniche e automobilistiche, chimica, gomma, cemento: furono questi i settori in cui emersero le maggiori novità.

La concorrenza estera era schiacciante pressoché in ogni settore: l’industria meccanica dovette far fronte sia agli elevati costi della materia prima, sia all’alto grado di specializzazione delle imprese estere. Inoltre in Italia la maggior parte delle industrie era organizzata su base familiare.

A partire dagli anni Ottanta del XIX sec. si cercò di modernizzare l’apparato industriale: fecero il loro ingresso nelle fabbriche le macchine speciali. Esse non sostituirono del tutto la manodopera ma la qualità del lavoro progredì in modo sorprendente. Nelle principali industrie del tempo, la Breda (costruzione di locomotive e vagoni) e la Prinetti (settore tessile), il numero di macchine utensili aumentò rapidamente e ciò causò l’avversione delle leghe operaie: la manodopera necessaria alle industrie stava per limitarsi ai singoli aggiustatori e montatori, dei tecnici al servizio di macchine sempre più complesse e specializzate.

Tuttavia le condizioni di mercato continuarono a non essere favorevoli allo sviluppo dell’industria meccanica. Tra il 1903 e il 1905, fu emanata una serie di riforme che incentivò i progressi dell’industria meccanica:

Quest’ultima riforma diede un forte impulso alle industrie perché lo Stato aveva richiesto un forte potenziamento della rete ferroviaria. Ciò comportò ingenti stanziamenti pubblici, per la realizzazione di nuove attrezzature, e mobilitò crescenti mezzi finanziari a favore delle principali industrie meccaniche. Nonostante la concorrenza estera si mantenesse agguerrita, l’industria italiana riuscì ad accaparrarsi una buona quota di commesse e ad ammortizzare le spese per i macchinari. Tra il 1907 e il 1908, furono rimossi numerosi intralci burocratici che impedivano che il flusso delle ordinazioni fosse regolare: ciò continuò a favorire le industrie italiane che, nel 1912, sconfissero la concorrenza per quanto riguarda il settore delle locomotive.

Nel 1908 sorse ad Ivrea uno stabilimento per la produzione di macchine per scrivere, fondato da Camillo Olivetti. Dopo l’importazione dagli Stati Uniti di moderni sistemi d’organizzazione, questi strumenti di scrittura si diffusero gradualmente negli uffici delle grandi società. Ciò testimonia la capacità dell’Italia di inserirsi anche nei settori in cui le strade sembravano sbarrate; quest’interesse si manifestò anche in altri ambiti come la produzione di attrezzature elettrotecniche, strumenti scientifici. Spesso l’itinerario di queste imprese fu molto faticoso sia per la mancanza di fondi, sia per la scarsa preparazione degli impiegati. Non mancarono in ogni caso società che riuscirono a svilupparsi in modo competitivo, come la Marelli (produceva ventilatori, strumenti di misurazione, lampadine e contatori), la Riva (aveva prodotto le prime turbine della centrale idroelettrica di Paderno, sull’Adda). La crescente applicazione dell’energia elettrica e lo sviluppo dei servizi consentirono all’industria italiana di volgersi verso il mercato interno. Nonostante le importazioni di macchine utensili dall’estero continuassero ad aumentare, si erano poste le basi per un successivo sviluppo, senza per questo gravare ulteriormente sulle casse dello Stato.

Con l’avvento dell’automobile e di nuovi mezzi di trasporto, si prospettarono per l’industria italiana grandi possibilità di sviluppo. In questo settore ci si mosse per tempo, nello steso periodo in cui il fenomeno prendeva consistenza nei paesi più progrediti. Negli Stati Uniti tale industria era già molto avanzata per l’opera di alcuni pionieri come Henry Ford (artefice della catena di montaggio) e così le auto americane furono commercializzate anche in Europa. In quel momento in Italia (siamo agli inizi del Novecento) le industrie automobilistiche erano pochissime e non sviluppate (la Fiat aveva iniziato la sua attività nel 1899). L’aumento delle tariffe doganali sull’importazione aveva costretto le case automobilistiche ad attrezzarsi in modo tale da concentrare le operazioni di montaggio e da produrre non soltanto mezzi di lusso o da diporto. Si verificò quindi una straordinaria ascesa di queste industrie fino al 1907, quando avvenne una recessione. La Fiat, anche se colpita duramente dalla crisi, continuò ad espandersi in altri stabilimenti ed avviò una produzione su larga scala. Al termine della crisi le industrie automobilistiche consolidarono il loro ruolo e razionalizzarono ulteriormente i sistemi produttivi. Ma l’auto era un prodotto di lusso, destinato a ristrette clientele, e pertanto il mercato interno era ancora scarso; di conseguenza molte auto furono esportate, con notevole profitto. Bisognava comunque ridurre il divario nei confronti dei prezzi delle auto americane, ben più accessibili grazie all’avvio in grande stile della produzione in serie. Dopo aver preso esempio dagli stabilimenti di Detroit della Ford, nel 1912 uscì in commercio la Fiat "Tipo Zero", ad un costo molto competitivo; inoltre attorno alla Fiat si erano sviluppate delle aziende-satellite per la produzione dell’equipaggiamento. Nasceva fin da allora il mito dell’industria automobilistica, che a molti appariva come una sorta di "isola americana" nell’universo ancora frammentario del settore meccanico.

L’evoluzione dell’industria chimica fu più modesta; dai prodotti tradizionali si passò ad attività industriali più complesse. Grazie alla produzione di acido solforico e di perfosfati, l’industria chimica raggiunse uno sviluppo perfino maggiore delle aziende meccaniche e metallurgiche. La Montecatini fu l’azienda più importante in questo settore ed il suo amministratore delegato, Guido Donegani, fu una delle personalità di spicco in quel periodo: egli avviò la massiccia produzione di acido solforico, molto importante nel settore agricolo. Decisamente importante fu inoltre il definitivo consolidamento del settore della gomma: all’inizio del Novecento la Pirelli aveva assunto ormai le dimensioni di una grande industria. Gli interessi dell’azienda si spostarono vero la produzione di pneumatici, vista l’affermazione dell’industria automobilistica: nel 1913 l’industria della gomma contava cinque società e raggruppava un ingente capitale, grazie anche alle soddisfacenti esportazioni. L’industria chimica non riuscì tuttavia ad imporsi farmaceutici, nel campo dei coloranti e delle vernici: qui la concorrenza era ancora decisamente troppo forte.

Un’altra industria che riuscì ad espandersi fu quella del cemento: dal 1903 al 1910 la produzione giunse a triplicarsi, grazie ad un crescente urbanesimo, allo sviluppo dell’edilizia e alla costruzione di tante centrali e attrezzature elettriche. Nel 1906 la vecchia Società Calce e Cemento di Bergamo si fuse con l’impresa dei fratelli Pesenti e divenne l’azienda più forte del settore. L’affermazione di questi settori comportò:

Si assistette alla nascita di una nuova imprenditorialità e di un moderno proletariato d’officina. Tuttavia esistevano forti squilibri, carenze e punti deboli: l’espansione dell’industria chimica non aveva dato luogo ad un ulteriore sviluppo del settore dei coloranti e ad un ammodernamento dei reparti di tintoria. Ne risultò svantaggiata l’industria tessile che comunque conobbe notevoli progressi. Si possono fare le stesse considerazioni per l’industria cotoniera: tra il 1895 e il 1913 i cotonifici italiani si svilupparono vertiginosamente, tanto che le minacce di crisi di sovrapproduzione erano ricorrenti. Si verificarono squilibri anche nell’industria meccanica perché non ci fu un adeguato potenziamento dei cantieri navali a causa soprattutto delle scarse sovvenzioni da parte dello Stato. L’unica impresa che ebbe un discreto sviluppo fu la Ansaldo che avviò la produzione di turbine navali e giunse a vendere navi da guerra a mezzo mondo.

I RAPPORTI TRA INDUSTRIA E STATO

I nodi dell’industria italiana passavano attraverso i rapporti, che s’instaurarono all’inizio del secolo, tra stato e monopoli siderurgici. I legami fra sistema bancario e industria pesante, che si erano interrotti in parte con la crisi degli anni Novanta, erano ripresi in coincidenza con i piani di potenziamento dell’industria mineraria e siderurgica, dopo l’avvento di nuovi istituti di credito. Nei primi quindici anni del novecento, le vicende dell’industria siderurgica italiana erano dominate da grandi manovre finanziarie, cominciate nel 1899.In quell’anno, un gruppo franco-belga aveva fondato la Società Elba, titolare di una concessione statale per l’escavazione del ferro (200.000 tonnellate massime annue) e interessata alla produzione di ghisa al forno a coke in un nuovo impianto a Portoferraio (entrato in funzione nel 1902). Il capitale sociale dell’impresa era di 15 milioni, che erano ripartiti tra il sindacato d’industriali e banchieri (capeggiato da Eugène Schneider) e i rappresentanti d’alcune grosse banche tedesche. Molto importante è la figura d’Edilio Reggio, che era titolare di un complesso giro d’affari che andavano dall’industria cotoniera a quella zuccheriera, dal commercio del carbon fossile alla siderurgia. Reggio aveva costituito un nuovo gruppo, la Società Siderurgica di Savona. Nel frattempo, erano nati forti contrasti tra il Credito Italiano e gli industriali franco-belgi a causa del luogo dove fu costruito lo stabilimento di Portoferraio, poiché non dava la possibilità di modernizzare e completare lo stabilimento. Dopo il ritiro della Società Elba (1902), Edilio Reggio acquistò il pacchetto di maggioranza della società che passò sotto il controllo dell’holding Terni-Siderurgia di Savona. All’egemonia del Credito Italiano nel frattempo si era sostituita quella della Banca Commerciale, strettamente collegata alla Terni. Inoltre si era cominciato a studiare il progetto per costruire un’acciaieria con forni Martin-Siemens. I motivi che portarono alla costruzione dell’acciaieria erano legati al corso dei titoli siderurgici in borsa e, all’intento di fare concorrenza alla Società Altiforni e Fonderie di Piombino (controllata da un gruppo finanziario livornese capeggiato da Max Bondi), che aveva iniziato la costruzione di un impianto siderurgico a ciclo integrale a Portovecchio. Nel 1904 giunse un progetto di legge che offriva numerosi vantaggi che misero d’accordo i due gruppi rivali. La legge, infatti, conteneva una clausola secondo la quale, per ogni iniziativa dell’industria siderurgica del Mezzogiorno, avrebbero ottenuto, insieme a concessioni fiscali, l’autorizzazione ad estrarre per lavorazioni proprie oltre 200.000 tonnellate di minerale di ferro nell’isola d’Elba. Così, con tale condizione, si poté reinserire il gruppo Credito-Ferriere Italiane. Nel febbraio del 1905 i due gruppi s'integrarono; dalla loro unione nacque a Genova una nuova società, l’Ilva, che doveva creare un grosso impianto siderurgico a Bagnoli. Rimase fuori da tale accordo il gruppo Bondi, che nel frattempo aveva portato a termine la costruzione dello stabilimento di Piombino (questo, partendo dal minerale fuso con il coke all’altoforno, giunse alla produzione d'acciaio laminato). Questo si trovò presto in difficoltà per quanto riguarda la quantità e la qualità dei suoi rifornimenti di ferro, poiché il monopolio nell’estrazione era detenuto dalla Società Elba. Si vennero a costituire in tal modo due grandi centri siderurgici, quello di Piombino e quello di Bagnoli. Emersero, anche, due potenti gruppi finanziari, la Banca Commerciale e il Credito Italiano, collegati all’industria siderurgica e ai suoi sbocchi di mercato. L’ingresso delle due potenti banche contribuì alla copertura degli ingenti costi di potenziamento degli impianti (nel 1913, il capitele investito ammontava a mezzo miliardo). Tutto ciò, permise l’avvio di una moderna industria dell’acciaio (la produzione aumentò da 60.000 tonnellate del 1895 a 930.000 tonnellate, di conseguenza si verificò un aumento degli addetti, che va da 14.400 del 1902 a più di 34.000 del 1910). Il ferro estratto dalle miniere demaniali dell’Elba, oltre ad essere esportato, veniva ora utilizzato nelle industrie siderurgiche italiane e il suo consumo venne aumentando, infatti, arrivò a toccare la cifra di oltre 800.000 tonnellate nel 1913. Molto importanti furono gli sviluppi degli stabilimenti piemontesi e lombardi, qui venne aumentando l’utilizzazione del rottame e le nuove applicazioni dell’energia elettrica. Nel 1906, mentre sorgeva la Dalmine, come filiale tedesca della Mannesmann, Giorgio Falck aveva impostato un programma di sviluppo delle Acciaierie e Ferriere Lombarde. Così, entrò in funzione nel 1908 il gran complesso di Sesto San Giovanni con forni Martin-Siemens e, molto importante, con un primo laminatoio. Tuttavia, non si riuscirono a colmare i divari tecnologici che separavano la siderurgia italiana dalle più progredite produzioni straniere. Inoltre, nonostante l’incremento degli impianti, verificatosi negli ultimi anni, non ci fu una diminuzione del prezzo dei prodotti. L’impiego dei forni Martin-Siemens, infatti, se da un lato consentiva di utilizzare come materia prima il rottame e svincolava la produzione d'acciaio dalla disponibilità di ghisa, dall’altro lato comportava un elevato consumo di carbone (nel 1910 la produzione d'acciaio in Italia era doppia rispetto a quella inglese, mentre la crescente importazione di carbon fossile e di coke metallurgico costituiva una delle voci passive più pesanti della bilancia commerciale). La trasformazione della siderurgia italiana era legata alle manovre finanziarie dei siderurgici, che erano interessati all’andamento dei titoli di borsa e alla possibilità di giungere ad intese e coalizioni in famiglia, in modo da sfruttare i vantaggi offerti dal regime doganale e dalla protezione dello Stato, e non a piani che consentissero un aggiornamento tecnico degli impianti. Inoltre i governi succedutisi alla direzione del paese, presieduti da Giolitti, si erano interessati a consolidare le finanze pubbliche e a rimettere ordine nella circolazione monetaria. Lo statista piemontese si era impiegato a creare le condizioni per rafforzare la moneta e per ridurre il debito pubblico. Tutto ciò permise di accrescere il volume delle risorse disponibili per gli investimenti, inoltre, il risanamento del bilancio statale permise al governo di varare alcuni provvedimenti per lo sviluppo dell’edilizia popolare e dei lavori pubblici, che permisero di aumentare l’occupazione e la produzione. Una particolare attenzione va alla questione meridionale: nel 1904 si era formulata una legge speciale per Napoli che prevedeva varie agevolazioni di carattere economico e finanziario per le imprese che si fossero stabilite nella città, inoltre, promuoveva un vasto programma d'opere pubbliche a favore dell’iniziativa privata. La politica di Giolitti era contraria alla creazione di monopoli e cartelli industriali, favoriva la nominatività dei titoli azionari e assecondava lo spirito della nuova borghesia economica intraprendente e con ambizioni espansive. In ogni caso, nel campo della politica industriale, Giolitti era rimasto ancora legato alle linee direttrici fissate negli ultimi anni dell’Ottocento (protezionismo doganale, preferenza delle industrie nazionali, miglioramento della legislazione per quanto riguarda l’attività produttiva). La crisi del 1907 ebbe forti ripercussioni sull’economia italiana, provocando un notevole cambiamento della politica sino allora praticata. Il governo dovette misurarsi con le inquietudini dei principali istituti di credito. L’alta banca, soprattutto quella Commerciale, aveva assunto un ruolo sempre più importante nello sviluppo industriale del paese. Il gruppo direttivo della Commerciale aveva favorito l’inserimento di nuovi metodi di finanziamento a favore delle imprese, partecipando attivamente alla loro gestione. Secondo Otto Joel, dirigente dell’Istituto milanese, l’intervento dell’alta banca con l’appoggio dello stato avrebbe colmato i ritardi del processo d’industrializzazione. Per questi motivi la Banca Commerciale era entrata a far parte del sistema politico giolittiano. I dirigenti della milanese, dall’altra parte, erano impegnati sia a soddisfare i finanziatori stranieri sia ad assecondare gli sforzi del governo e dell’iniziativa privata per lo sviluppo economico del paese. L’intervento della Banca Commerciale e del Credito Italiano fu indispensabile per la formazione e l’espansione dell’industria nazionale. Le operazioni di credito mobiliare e quelle finanziarie partivano dal prefinanziamento di determinate imprese, proseguiva con l’assunzione di valori mobiliari e con il successivo collocamento dei titoli in borsa. In questo modo, la Commerciale e il Credito Italiano contribuirono a rendere più agevole il flusso di nuovi capitali verso l’industria.

IL SALVATAGGIO DELLA SIDERURGIA

Le principali industrie, a causa della necessità di nuovi capitali, iniziarono ad incontrare maggiori difficoltà nel reperire i mezzi finanziari; mentre la domanda interna accusò segni di rallentamento. Il cambiamento economico, verificatosi tra il 1906 e il 1907, colpì sia le aziende più deboli dal punto di vista tecnico e imprenditoriale che quelle più forti. Così, si venne a creare una situazione caratterizzata da elevati immobilizzi industriali e dall’intervento delle banche sul mercato finanziario per sostenere le quotazioni dei titoli azionari in loro possesso. La Banca Commerciale e il Credito Italiano promuovevano, in alcuni importanti settori protetti dalle tariffe doganali e dalle commesse pubbliche, una struttura industriale che controllasse sempre più larghe quote di mercato e che traeva profitto da sovvenzioni e benefici concessi dallo Stato, in modo da assicurarsi una più robusta copertura per la loro attività d'intermediazione. Dopo il 1907, in seguito alle recessioni, maniera più evidente, le difficoltà delle banche a coprire gli squilibri che si erano creati dal rapporto tra depositi, mezzi propri ed elevati impieghi industriali. La recessione del 1907 aveva colpito soprattutto il settore siderurgico, nel quale le banche avevano investito enormi capitali. Grandi somme di denaro erano destinate per la costruzione d'impianti che avevano una capacità produttiva superiore alla reale richiesta di mercato. Una parte dei mezzi finanziari, destinati al potenziamento tecnico, era utilizzata per l’acquisto di azioni e altre operazioni speculative. Per questi motivi, le banche di credito, per fronteggiare la tensione monetaria, furono costrette a restringere i crediti e ad elevare i tassi di sconto. Le maggiori imprese siderurgiche, sommerse dai debiti e colpite dalla sovrapproduzione, non poterono ne completare nuovi impianti ne affrontare le normali spese. Nacque a questo punto la necessità di trovare nuove fonti di finanziamento. Il gruppo siderurgico Odero-Orlando si rivolse a Giolitti per ottenere dalla Banca d’Italia lo sconto diretto delle loro cambiali. Il governatore Stringher non ritenne opportuno intervenire, perché lo statuto lo vietava, perché si sarebbe corso il rischio di immobilizzare una grossa cifra di denaro senza conoscere le condizioni delle imprese e, soprattutto, perché si sarebbero resi vani tutti gli sforzi compiuti per creare un valido sistema creditizio. Si noti, che lo stato aveva ripreso le emissioni di titoli pubblici (questo portava ad una diminuzione della disponibilità di capitali da investire nell’industria). Oltre alla recessione, anche il dumping più intenso del cartello tedesco minacciava l’esistenza delle imprese siderurgiche, poiché non potevano competere con i prezzi differenziali in ogni ramo di produzione. A questo punto, il governo dovette studiare un piano d’intervento che non escludesse, un eventuale, sostegno finanziario della Banca d’Italia. E’ da notare, che sia la Commerciale sia il Credito Italiano si dimostrarono molto attente nel valutare i costi delle progettazioni e le scarse prospettive di profitto. La situazione precipitò nel 1909; nel 1911 si rese necessario l’intervento della Banca d’Italia per garantire la sopravvivenza dell’industria siderurgica. Non fu facile giungere ad una soluzione poiché le principali banche, che si erano disputate sino a quel momento il campo della siderurgia, non volevano farsi coinvolgere nel salvataggio delle imprese o, comunque, cercavano di far valere le proprie condizioni. La Commerciale intendeva separare la situazione della Terni (l’azienda aveva il monopolio delle forniture militari, quindi, si poteva considerare al riparo dalle incertezze del mercato) da quella delle altre aziende, poiché questo avrebbe portato limiti e ostacoli alla sua attività. Il Credito Italiano, che aveva interesse a concludere le trattative, si trovò davanti l’opposizione dei dirigenti dell’azienda siderurgica perché erano contrari al progetto elaborato da Stringher, che prevedeva anche la sistemazione della Società di Piombino. Con l’aggravarsi della crisi e la minaccia di far cessare l’interessamento della Banca d’Italia, nel 1911 furono concluse le trattative. Per aderire all’operazione, gli istituti di credito chiesero la garanzia del rimborso dei finanziamenti a loro richiesti, inoltre, ottennero che le società s' impegnassero a non realizzare, per almeno cinque anni, nuovi impianti (ciò rese più difficile, la prospettiva di ridurre i prezzi di produzione e di renderli più competitivi). Così, si creò un consorzio di sovventori per la sistemazione dei debiti a breve termine delle imprese (partecipò la Banca d’Italia e alcune Casse di risparmio). Con il salvataggio delle imprese si stabilì un piano di gestione unitaria degli stabilimenti. Le società Elba, Piombino, Savona, la Ligure Metallurgica e le Ferriere Italiane diedero i propri impianti in gestione all’Ilva per dodici anni. Nel frattempo si costituì un sindacato commerciale, la Società Anonima Ferro e Acciaio, per disciplinare i prezzi, il mercato interno e fronteggiare la politica di dumping dei sindacati stranieri. Gli obiettivi, per la riorganizzazione dell’industria siderurgica, non vennero tutti raggiunti. Infatti, il complesso di costi di produzione rimasero troppo alti per diventare competitivi. Soltanto dopo il 1913, con l’accordo stipulato con il cartello tedesco dell’acciaio, per ridurre le conseguenze del dumping da loro esercitato in Italia, le imprese poterono riavviare i loro progetti di coordinamento commerciale della produzione per quantità e qualità.

 

I PROBLEMI DEL FINANZIAMENTO INDUSTRIALE

In passato, lo Stato si era limitato a creare le condizioni favorevoli alle iniziative d'investimento e aveva alimentato la domanda interna con commesse e ordinazioni. Nel 1907, la possibilità di capitalizzazione e di finanziamento venne meno, a causa delle forti emissioni di titoli da parte dello Stato e le misure restrittive sul credito bancario. Da un lato, l’operazione di salvataggio si era conclusa nel migliore dei modi, in quanto Stringher si era mantenuto nei limiti del credito già concesso, evitando ulteriori finanziamenti diretti della Banca d’Italia; le banche, inoltre, erano riuscite a non accrescere i loro rischi. Dall’altro lato, aumentarono le responsabilità dello Stato. Molte imprese erano costrette a rivolgersi alle banche, perché si era verificato un rallentamento della domanda interna e una diminuzione degli impieghi privati in titoli azionari. D’altra parte, l’assistenza finanziaria delle banche dipendeva dal fatto che le società, da loro aiutate, vantassero sicure posizioni di mercato. Di conseguenza, si ricercavano nuove forme di concentrazione industriale e commerciale, ma anche, ulteriori garanzie statali in favore della centralizzazione del sistema produttivo e a sostegno dell’industria pesante, dei cantieri e della marina mercantile. Negli stessi anni in cui avvenne il salvataggio della siderurgia, sorse il problema della riorganizzazione dei servizi marittimi. Per far passare il progetto governativo che prevedeva la riduzione di privilegi monopolistici del principale gruppo armatoriale, fu necessario giungere ad un compromesso con la Società di Navigazione Generale Italiana (capeggiata dai Florio e sostenuta dalla Banca Commerciale), che intendeva bloccare la concorrenza del gruppo Poggio e d'altre compagnie. Nel 1910 si giunse all’unificazione di quattro società (la Navigazione Generale, la Veloce, l’Italia e il Lloyd Italiano) in un gruppo finanaziario-industriale. Da quel momento la compagnia genovese e le sue affiliate poterono avere gli stessi privilegi dell’industria siderurgica. Così, lo stato si trovò nella condizione di dover fornire garanzie e aiuti sempre più impegnativi a favore d'alcuni settori industriali (negli anni 1905-1912 lo Stato si trovò con 224 milioni di passivi). Lo Stato, oltre a favorire i finanziamenti per la siderurgia, l’attività cantieristica e la costruzione di ferrovie, favoriva anche l’industria saccarifera che godeva di solide protezioni. Questo tipo d'industria si era sviluppata negli ultimi anni grazie ai forti dazi doganali a suo favore. Protagonisti dell’eccezionale espansione di questo settore furono Emilio Mariani ed Emilio Bruzzone, che avevano stretto forti legami con i magnati del ferro e avevano seguito l’esempio del settore siderurgico, per quanto riguardava i loro rapporti con il governo. Si deve notare che il consumo di zucchero in Italia era molto inferiore rispetto a quello d'altri paesi: soltanto un’alta protezione doganale e la formazione di grossi consorzi di categoria potevano garantire grossi profitti. In Italia l’intervento dello Stato aveva assunto dimensioni sempre più ampie; era stato uno dei fattori più importanti che aveva permesso lo slancio industriale, che si era manifestato negli ultimi anni del secolo. Non bisogna dimenticare l’autonoma capacità di sviluppo dimostrata nei settori industriali più dinamici e il ruolo dell’iniziativa privata. Nel 1911 i progressi compiuti dall’industria apparivano rilevanti, nonostante riguardassero solo una parte della penisola. L’occupazione industriale era raddoppiata rispetto al 1903, inoltre erano presenti strutture organizzative e finanziarie più solide. Malgrado, lo sviluppo del settore siderurgico, l’Italia continuava ad occupare un posto marginale nella graduatoria europea dei prodotti d’acciaio l’industria meccanica aveva compiuto numerosi progressi.